In circa quarant’anni di carriera ha scritto più di 40 album e le sue canzoni sono state definite dalla critica delle vere e proprie poesie: stiamo parlando del grandissimo cantautore italiano Fabrizio De Andrè, che visse nella seconda parte del Novecento.
In particolare, una delle sue canzoni maggiormente conosciute è sicuramente Don Raffaè, contenuta nell’album “Le Nuvole” del 1990. De Andrè in questo suo componimento parla chiaramente della sottomissione dello Stato alla malavita italiana, dato che è proprio quest’ultima a mantenere il potere e a “manovrare le redini del gioco”.
Nel testo incontriamo Pasquale Cafiero che per prima cosa si descrive: è il brigadiere del carcere di Poggioreale, esausto a causa del suo lavoro, ma per fortuna c’è don Raffaé che
Mi spiega che penso e bevimm’ ‘o café.
Proprio il caffè è il motivo principale che ricorre durante tutta la canzone; il ritornello recita:
Ah, che bell’ ‘o cafè, Pure in carcere ‘o sanno fa,
frase presa in prestito da una celebre canzone di Domenico Modugno.
De André viene ricordato anche, e soprattutto, per la sua grande schiettezza, ed in questa canzone non viene meno, dal momento che il testo è stracolmo di chiare allusioni al “misterioso” rapporto Stato-mafia. Allusioni spesso, molto taglienti, come, ad esempio nei versi:
Prima pagina, venti notizie
Ventuno ingiustizie e lo Stato che fa
Si costerna, s’indigna, s’impegna
Poi getta la spugna con gran dignità.
Ma continua poi con richieste da parte del brigadiere di favori che possono essere sia futili (come la richiesta di un cappotto in prestito), sia più rilevanti (come un posto di lavoro per il fratello disoccupato).
Un altro punto fondamentale è il sarcasmo, che è una costante all’interno del componimento, in cui, chiaramente, il cantautore si fa beffa di tante cose: delle carceri italiane, perché proprio qui vediamo che don Raffaé, nonostante la sua posizione molto particolare, vive nel lusso senza nessun tipo di problema; ma anche dello Stato, che combatte la malavita solo apparentemente, senza fare in realtà nulla di concreto.
Molti pensano che questo brano sia dedicato al fondatore e capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, deceduto lo scorso 17 febbraio nel carcere di Parma dove era detenuto al 41bis.
Cutolo si definiva come “un Robin Hood”, ma viene ricordato solo come un criminale che ha ordinato più di mille omicidi, famoso per non essersi mai pentito, per non aver mai rivelato nulla dei suoi loschi affari. Addirittura disse: “Io ho fatto tanto, ho sempre regalato sorrisi a chi ne aveva bisogno”. “La vera camorra sta a Roma, mica qua”.
Si tratta, dunque, di un personaggio molto particolare che possiamo definire anche manipolatore, dal momento che anche dal carcere la sua forza, purtroppo, non si arrestò mai del tutto.
Ma il celebre brano di cui vi ho parlato è davvero dedicato a Cutolo?
Lo stesso Fabrizio ci dice di no: sicuramente il testo presenta dei riferimenti a Cutolo, ma non si può dire che la canzone sia dedicata a lui. De André piuttosto l’ha scritta, com’era suo solito fare, per denunciare qualcosa di più grande e più importante, attraverso parole che possono sembrare leggere ma, in realtà, sono cariche di significato.
Cutolo, però, non capì ciò. Infatti, dopo aver ascoltato il brano, inviò una lettera al cantautore in cui lo ringraziava e si complimentava per la sua bravura nell’aver descritto perfettamente la sua personalità, nonostante i due non si fossero mai incontrati. Fabrizio rispose al suo messaggio per ringraziarlo. Cutolo gli scrisse, poi, un’altra missiva, ma De André non gli inviò mai alcuna risposta. Effettivamente avere come “amico di penna” un noto criminale non doveva essere un desiderio del cantante.