Uno dei film appartenenti alla cultura cinematografica, un “cult” che, a mio parere, ognuno di noi dovrebbe vedere almeno una volta (se non di più) durante il corso della propria vita, è Fight Club. Questo è uno dei film a cui probabilmente sono più affezionata poiché lo ritengo uno dei film cult che possa fungere come pilastro portante della cinematografia. Per me “Fight Club” non ha difetti né dal punto di vista della regia né assolutamente della trama, al contrario si distingue per la sua completezza e perfezione. Uscito nel 1999 e diretto da David Fincher vede come protagonisti Edward Norton che interpreta un personaggio senza nome, benché sia il principale, chiamato “Mr. Ikea”. Un nome ironico, in quanto il suddetto personaggio tende a comprare tanti pezzi d’arredamento come se completassero la sua vita, concetto che poi nel film verrà enucleato con la frase “le cose che possiedi alla fine ti possiedono”.
Il piatto Mr. Ikea così si troverà a fare la conoscenza di un uomo alquanto sui generis, Tyler Durden, interpretato da Bratt Pitt, tutto il contrario di Mr. Ikea. Successivamente all’esplosione della sua casa, Mr. Ikea, in preda alla disperazione, chiamerà Tyler, poiché aveva visto in lui tutto ciò che aveva sempre voluto, ma che non era mai riuscito ad essere. I due, dunque, stringeranno amicizia, fino a quando un giorno, all’uscita di un locale inizieranno a picchiarsi, evento che li porterà a fondare un club segreto di lotta, appunto il “Fight Club”, dal quale prende nome il film. Nonostante la prima regola del Fight Club sia “non parlare mai del Fight Club’’, molti vengono a conoscenza di questo club e ne faranno parte poiché lo vedranno come l’unica valvola di sfogo nelle loro vite così normali.
Il Fight Club, però, prenderà svolte inaspettate come la vita stessa di Mr. Ikea.
Credo sia anche doveroso menzionare una magnifica Helena Bonham Carter nei panni di Marla Singer, donna che Mr. Ikea incontrerà nei gruppi di sostegno della propria città. Un personaggio controverso, una femme fatale e misteriosa che si adatta perfettamente alla trama e all’atmosfera del film. La pellicola, ispirata al romanzo di Chuck Palahniuk, pubblicato nel 1996, è una denuncia del consumismo, del conformismo e mette in evidenza quel divario interiore che è proprio di tutti noi, tra chi siamo e chi vorremmo essere e tutto ciò che facciamo (o che meglio non facciamo) per paura del giudizio altrui.
Un film che va oltre le apparenze e che fa vedere che ciò che mostriamo non è tutto quello che c’è.
Mr. Ikea vive, come già detto una vita noiosa e piatta, in un limbo tra sogno e realtà, la depressione e la routine gli offusca la vista non riuscendo nemmeno più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Da qui la metafora del Fight Club, sostituire il dolore psicologico con quello fisico, una ulteriore fuga dalla realtà, ma anche un esercizio per combattere il sistema malato che li ha fatti ammalare.
Un brano che credo possa sintetizzare uno dei tanti messaggi del film (ne ha più di uno e un solo articolo non basterebbe a rendergli giustizia) è un discorso pronunciato da Tyler che afferma: “La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cavolate che non ci servono. Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinto che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock stars. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando”.