Sicilia

Intervista a Giampaolo Nunzio, musicante di Sicilia

La musica è una cosa che abbiamo dentro

La più bella regione d’Italia: un’orgia inaudita di colori,
di profumi , di luci, una grande goduria
(Sigmund Freud)

Freud descrive così la nostra bellissima terra, invidiata in tutto il mondo. Terra ricca di colori, profumi, sapori, sempre accogliente e calorosa, vanta antichissime tradizioni, è “madre” di molti artisti. Molti hanno deciso di lasciare la nostra terra e fare fortuna altrove, custodendo nostalgicamente il ricordo di essa, ma per fortuna c’è anche chi, con tantissimi sacrifici, è rimasto e grazie al proprio ingegno e alla propria creatività, ha trovato qui il suo porto sicuro.

Oggi abbiamo avuto il piacere e l’onore di intervistare Giampaolo Nunzio del gruppo musicale “I Beddi, musicanti di Sicilia”, un musicista che rimanendo nella sua adorata terra è riuscito a trasformare la sua passione in un mestiere.

In quale momento della sua vita è nata la passione per la musica e quando questa è diventata la sua passione?

La musica è una cosa che abbiamo dentro, soprattutto quelli che portano dentro un talento musicale. Io mi sono accorto già da bambino di avere queste capacità e fortunatamente, in un modo o in un altro, sono riuscito a coltivarle, iscrivendomi al Conservatorio, imparando la musica codificata, il solfeggio e imparando a suonare uno strumento in maniera accademica, il flauto traverso. La musica mi ha accompagnato per tutta la vita, anche se non ho fatto esclusivamente il musicista per tutta la vita. Ho fatto anche un altro mestiere.

La rubrica del nostro blog si chiama “Cu resta arrinesci”. Nella sua carriera da artista ha mai avuto dei ripensamenti per il fatto di essere rimasto in Sicilia?

Tanti anni fa non c’erano le opportunità che ci sono adesso per le nuove generazioni. Negli anni ’90 quando avevo intorno ai 25 anni avevo pensato di andarmene da qui, per coltivare la mia carriera musicale o perlomeno per creane una lontano da qui. Avevo pensato di andare a Roma e iniziare a fare un lavoro umile, ad esempio il cameriere e nello stesso tempo cercare di inserirmi nell’ambiente musicale. Per tanti motivi poi sono rimasto e ho iniziato un’attività lontana dalla musica. Questa cosa mi ha fatto soffrire un pochino. Per almeno 15 anni mi sono dedicato al mio lavoro non musicale. Avevo un centro stampa digitale, quindi facevo tutt’altro mestiere. A un certo punto mi sono detto che non era possibile, dovevo dedicarmi alle mie passioni. Mi sono messo alla ricerca di nuove opportunità, e da lì è nata la conoscenza con alcuni componenti del gruppo attuale dei “Beddi, musicanti di Sicilia”. L’avventura è nata già da circa 15 anni.

Ci parli un po’ della sua band. Qual è il messaggio che lanciate attraverso i testi e soprattutto a chi è rivolto?

La nostra band, come ho detto prima, nasce circa 15 anni fa, come un trio: io, Davide Urso, l’elemento storico, colui che si è sobbarcato anche altri oneri oltre l’aspetto artistico, cioè quello di gestione e di investimento e Mimì Sterrantino, un cantautore taorminese che già viaggia abbastanza autonomamente come cantautore e che è già al suo sesto disco. Poi negli anni, siamo passati da quattro elementi a sei elementi. Il tipo di musica che abbiamo iniziato a fare inizialmente era folk. Abbiamo preso un repertorio tipicamente tradizionale, lo abbiamo elaborato a modo nostro e dopodiché abbiamo anche iniziato a scrivere noi stessi musica, sempre però sulla falsa riga del folk. Abbiamo preso brani da vari ricercatori e autori come il Pitrè. Giuseppe Pitrè faceva ricerche su tradizioni popolari e soprattutto testuali. Andava in giro per la Sicilia e poi ha raccolto in un libro un sacco di poesie, canzoni, tutta roba che veniva dal popolo. Così come Alberto Favara che, invece, era un ricercatore che ha trascritto proprio le musiche tradizionali. Abbiamo “pescato” le cose da lì. Man mano che passavano gli anni la band si è trasformata da un quartetto tipicamente folk con me che suonavo gli strumenti tradizionali come la zampogna, l’organetto, il friscalettu, la chitarra, il mandolino, il tamburello e il contrabasso ( uno strumento tradizionale ma che abbiamo aggiunto per completamento dell’armonia) a un sestetto che dopo varie ricerche e trasformazioni ha visto aggiungersi anche una batteria e una chitarra elettrica. Adesso la musica che facciamo è un’evoluzione estrema di quella con cui siamo partiti.

Avete avuto modo di portare il vostro nome e soprattutto la vostra arte fuori dalla Sicilia?

Certamente! Sin dai primi in cui la formazione esisteva siamo riusciti a farci conoscere da organizzazioni di festival in giro per il mondo. Siamo arrivati fino a un grosso festival che si fa in Malesia! Questo è stato il più bello e importante che abbiamo fatto perché vedeva la presenza di gruppi, soprattutto professionisti, che venivano da tutto il mondo: dall’Africa, dall’Asia, dall’Australia e dall’Europa ovviamente. Ci hanno scelti come rappresentanti dell’Italia. Non c’erano tutte le nazioni presenti, credo fossero 20. Poi abbiamo girato in Germania, Austria, Belgio e ovviamente in Italia. Il primo impegno in assoluto del trio è stato un festival in Tunisia. Il mondo lo abbiamo girato e dove siamo stati presenti siamo stati anche molto apprezzati.

Fra le tante vostre canzoni qual è quella a cui è più legato?

Come dicevo prima siamo partiti da un repertorio tradizionale, quindi non di autore e poi negli anni abbiamo iniziato a scrivere. L’autore principale delle nostre canzoni è Davide Urso, colui che ha elaborato il progetto e da un po’ la linea editoriale del gruppo. Io come compositore a anche arrangiatore, ho partecipato a molti arrangiamenti dei brani, ho anche scritto qualche brano. Se devo pensare a una canzone a cui sono legato, ti devo dire per forza una delle mie anche se ci sono molte belle canzoni. Una canzone per esempio che ho scritto nel penultimo disco “Della rivoluzione…e di altri folklorismi” si chiama “Cu ti porta”. E’ una canzone sull’emigrazione di oggi, è un testo in cui all’inizio si può leggere questa esitazione, questo combattimento interiore sul voler rimanere o voler partire, questa precarietà che, purtroppo, abbiamo qui al sud di pensare che magari andandocene arriniscemu. La seconda parte parla di due esempi simbolo per me. Quelli che partono non per estrema necessità ma per avere la possibilità di fare qualcosa di diverso, magari partono con il sostegno economico della famiglia che gli manda i soldi. Diventano poi artisti, scrittori, registi perché aspirano a qualcosa di più alto rispetto a un operaio in fabbrica e poi magari scrivono della loro terra dicendo che questa è bella ma deve essere cambiata, però allo stesso tempo loro sono andati via e non sono rimasti a cambiare la Sicilia dall’interno. E poi ci sono quelli che all’opposto sono stati costretti, soprattutto, nei decenni passati a emigrare, i cosiddetti emigrati in Argentina o anche in Belgio, che andavano a fare i lavori più umili e pericolosi come lavorare nelle miniere in Belgio dove magari ci morivano dentro o in Argentina o in Australia, lontanissimi dalle famiglie. Queste persone non dicevano che bisognava cambiare la Sicilia ma avevano una forte nostalgia e voglia di tornare perché a Sicilia doveva essere così come se la ricordavano loro per quanto ne erano legati affettivamente.

Siete stati attivi recentemente? Avete pubblicato un nuovo disco? E se si, qual è l’argomento di questo, il tema principale?

“Siamo stati attivi” è una parola grossa. Giustamente siamo in pandemia da più di un anno e, quindi, la nostra attività, soprattutto sui palchi si è praticamente azzerata. Dal punto di vista della creatività in studio fortunatamente siamo riusciti a completare un disco che avevamo iniziato a registrare prima della pandemia. È uscito proprio in questi mesi, si chiama ” Non chiamateci folksinger”. È un disco che vede tre brani inediti. La restante parte, invece, sono i brani più apprezzati dal pubblico quando facevamo i concerti live. Abbiamo deciso di proporli con i nuovi arrangiamenti che facciamo in live. Questi nuovi brani inediti sono ancora più un’evoluzione del nostro cammino di artisti che va verso nuove forme di espressione.
Il titolo del disco “Non chiamateci folksinger” ne racchiude il tema. Non vogliamo essere etichettati come musicisti folk, jazz, rock ma quello che facciamo racchiude un po’ tutto, c’è un po’ di tutto. Vogliamo sentirci liberi. Sono molto presenti, infatti, la chitarra elettrica, la batteria e gli arrangiamenti sono molto rock anche se i brani sono prettamente folk. Voglio citare anche i dischi pubblicati precedentemente che sono già cinque. Il primo è “Ppi jocu e pp’amuri” che è fatto in quartetto con alcuni ospiti in cui c’è un repertorio prettamente tradizionale. Il secondo disco si chiama “Siciliazero” che vuole dire partire da qui e vedere cosa succede. Il terzo disco è un disco di Natale in quanto proponiamo anche le tradizioni natalizie vissute dal popolo siciliano con dei brani particolari e si chiama “E falla bedda la ninnaredda”. Il quarto disco è “Della rivoluzione…e di altri folklorismi”i n cui c’è un’ulteriore evoluzione e la presenza di molti brani nuovi. E poi c’è l’ultimo disco di cui vi ho parlato prima.

Siamo giunti alla fine di quest’intervista. La nostra redazione la ringrazia tanto per aver speso con noi il suo tempo signor Nunzio, è stato un piacere.

Figurati! Un piacere è stato per me. Spero che alla gente arrivi anche la passione che io e i miei compagni di viaggio mettiamo nel fare la nostra attività.

Alessia Chillemi

Mi chiamo Alessia. Sono molto estroversa e mi piace condividere con gli altri tutto ciò che mi accade. Amo la danza e la musica. Mi piace scrivere, stare in compagnia dei miei amici e viaggiare, esplorando sempre nuovi posti. Ho tanta voglia di vivere e amo mettermi in gioco provando sempre nuove esperienze.

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